mercoledì 3 marzo 2010

E Toro Seduto in panchina

indiano22
Nella nazionale italiana di calcio Under (più o meno) 21 che ha giocato mercoledì contro l’Ungheria, c’erano ben tre giocatori di sangue africano, Balotelli (che dovrebbe giocare per Lippi, se il Commissario Biancaneve non preferisse i Combattenti e Reduci della Guerra di Crimea), Okaka e Ogbonna, provenienti da tre squadre e regioni diverse, Lombardia, Piemonte, Lazio. La temuta società multietnica che tiene svegli i Bricolo, i Cota, i Borghezio con lo spray disinfettante e i crociati della busecca, è già arrivata, è qui, tra noi, ci piaccia o no, senza neppure ricordare il fatto che multietnici, multiculturali, multitutto gli abitanti dello Stivale sono da alcuni millenni, per amore o per forza, da quando gli Etruschi, di origine turca, portarono la prima civilizzazione dal mare, mentre i Celti sognati dai busini della Brianza cominciavano a stento a imparare come mettersi le dita nel naso. Come accadde negli Stati Uniti dell’apartheid e del “separati, ma uguali” oggi caro ai sindaci della Vandea Veneta e Lombarda, sono le forze armate e lo sport ad aprire quelle chiuse che gli speculatori del razzismo, gli uomini “superiori”, gli sfruttatori di braccia e i venditori di paure tentano invano di tenere bloccate. Fu tra il 1947 e il 1948 che il baseball ruppe la grande muraglia bianca eretta fino ad allora attorno al “passatempo nazionale” e che la US Army decretò per ordine di Truman la desegregazione dopo che la guerra, e il sangue sparso sugli stessi campi di battaglia da bianchi e neri formalmente separati in unità diverse ma morti insieme, ne avevano mostrato tutta la insensatezza. Non sono coincidenze. Le guerre, e la loro incruenta metafora sportiva, hanno qualcosa in comune: dimostrano sul campo, sotto il fuoco e nella lotta con l’avversario/nemico, che non è la pelle dell’uomo, ma l’uomo dentro la pelle, quello che conta. Esattamente il contrario dei politicanti che vivono di immagine fuori e di vuoto dentro.


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