martedì 30 dicembre 2008

Fabrizio de Andre` ricordato da Ivano Fossati

Non vado pazzo per le celebrazioni, le beatificazioni, le rievocazioni. Normalmente ne sto lontano, perché considero sacrosanto solo il ricordo strettamente personale dei fatti e delle persone. Quello, per intenderci, che si conserva da soli, in silenzio. Ma certo si può ammettere qualche legittima deroga a tutto questo. Fabrizio De André è stato ricordato e celebrato, forse ogni singolo giorno dal momento della sua scomparsa, come non era accaduto prima a nessun grande artista italiano. Questo testimonia il vuoto tangibilmente grande che ha lasciato nel cuore e ancor più nel bisogno di conforto dei molti che lo hanno amato. Piccole e grandi celebrazioni avvenute un poco dovunque in giro per l’Italia. Tributi sempre più o meno accorati e a distanza di dieci anni non ancora liberati del tutto dall’ombra accompagnatrice del rimpianto. Perfino la sorpresa, per la perdita di quell’uomo così discreto ma così presente nella storia dei sentimenti di questo Paese, si è fatta sentire fino all’ultimo, cioè fino a oggi. Così le celebrazioni sono state spesso vagamente lacrimose.

La memoria di Fabrizio ha diritto oggi a qualcosa di diverso, ne sono più che convinto. Merita più delle agiografie, delle biografie, delle scontate raccolte di canzoni rimasterizzate e reimpacchettate. Merita soprattutto di sfuggire all’aneddotica prêt à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare. Quando gli amici, i compagni di strada, quelli che sanno, che hanno visto, quelli che c’erano, si moltiplicano a dismisura.

«Fabrizio oggi è di tutti» dice Dori Ghezzi con tollerante senso della realtà. Purtroppo nessuna seriosissima esegesi, nessuno scandagliamento della sua opera ci restituisce la complessità, o se si preferisce, la completezza del carattere di De André. Così, personalmente, ho più cara nei miei ricordi la parte di lui che lo faceva «parlare basso», da buon genovese a un altro genovese. Niente lessico da libro stampato, nessun massimo sistema, ma frequenti risultati di partite di calcio. Il Genoa. E magari qualche gioioso apprezzamento per rotondità muliebri fuggevolmente offerte da programmi tv di taglio basso. Garbato e sornione s’intende, in salsa fredda, alla ligure. Un mondiale di calcio, il festival di Sanremo, le televendite. Qualche lieve ubriacatura. Un po’ di birre a Sestri Levante per festeggiare il testo di «A Cimma», che ci era sembrato irraggiungibile. E improvvisamente le ginocchia di tutti e due che non reggono più per tornare a casa. Perché non erano più gli anni settanta. Era questo un De André «semplificato» che la gente avrebbe amato e compreso ancora di più, se è mai possibile. Le leggerezze dette a piena bocca umanizzano. Sono un dono che il cielo fa agli uomini di grande intelligenza, i quali se vogliono ne usano, come per cercare riposo. Alcuni che idealizzano e rendono monumentali uomini e artisti, secondo un’immagine che non ammette imperfezioni, non capirebbero.

Fabrizio era vitale e come ogni persona del suo tipo era capace di scarti improvvisi, di spiazzamenti all’interno del suo stesso essere. Figurarsi all’esterno, cioè stargli vicino. Giornate intere di bonaccia, calma quasi piatta, e poi improvvise scosse elettriche con rincorse verso l’alto o verso il basso. In alto lo spirito filosofico e in basso il fondo dei garbugli umani. Secondo l’umore, secondo la giornata. Troppo terribilmente intelligente per definirlo un buono. Ma quest’ultimo era il Fabrizio che preferivo. Invece il grande artista, quello come tutti se lo sarebbero aspettato, lo conoscevo bene. Ero stato un suo ammiratore molto prima che un suo amico. A poco più di vent’anni avevo letteralmente consumato sul piatto del giradischi «Non al denaro, non all’amore, né al cielo» e «Storia di un impiegato».

Tenevo in considerazione quei due album al pari di quelli di Jimi Hendrix o degli Stones. Nessuna differenza. Come se la musica di Fabrizio fosse arrivata anch’essa dall’America, da Plutone o da un pianeta ancora più lontano, sul quale fosse lecito scrivere canzoni in italiano. L’eroe che aveva tradotto in musica «Spoon River», allontanandola dalla noia delle antologie scolastiche lo conoscevo già. Ora a distanza di anni, durante la scrittura di «Anime salve» mi piaceva di più passare quei lunghi pomeriggi piemontesi con un Fabrizio quieto e sorridente, accovacciato a terra davanti a un apparecchio radio degli anni sessanta, in attesa dei risultati delle partite di calcio, la domenica pomeriggio.

«Il Genoa, il Genoa, cos’ha fatto il Genoa»? Ma la sua squadra del cuore non brillava granché in quel periodo. Forse questo decennale e la grande mostra che si inaugura a Genova non faranno di Fabrizio De André un immobile monumento. Forse a Genova la marea di gente che gli vuole bene potrà servirsi da sé a piene mani e ubriacarsi di dati, ricordi e racconti digitali. In mezzo a tutte quelle immagini io dico che dovrà essere come un prolungato abbraccio festoso. Senza più ombra di rimpianto. Anche per via di quella gioia che infonde, soprattutto nei ragazzi, il poter rovistare navigando nella tecnologia. E la tecnologia risponde nell’unico modo che sa: raccontando perfettamente il passato, ma con la voce del futuro.

di IVANO FOSSATI

Pensierino di Natale , da Gabriele Romagnoli

Ma il pensierino di Natale è una frase di Christian De Sica, riportata da un giornale che leggo in aereo "Il Corriere della Sera". Questa:

"Io sono orgoglioso di aver fatto i cinepanettoni. Perché se avessi fatto "Ladri di biciclette" sarei morto di fame".

La fine della fiera comincia lì, non con Lusetti o Villari, occuparsi di quelli è come guardare tra i resti travolti dalla valanga invece di alzare lo sguardo verso la cima da cui è scesa.

Anni e anni di omologazione.

Siete stati deboli e rinnegati.

Avete chiuso i cinema d'essai perché un comico vi ha detto che "La corazzata Potemkin è una boiata pazzesca", ma Von Trier e Kieslowsky sono ben meglio di Benigni.

Avete sacrificato l'intelligenza all'affidabilità.

Vi siete inchinati al marketing, ai sondaggi, alle scelte degli altri.

Furbetti pure voi.

Non avete scagliato la prima pietra perché eravate pieni di peccati: ce l'hanno eccome un dossier su di voi.

Avete vellicato il narcisismo dei fasulli.

Avete spinto a destra un paio di cazzoni, ma anche troppi esseri perbene.

Avete imbarcato falle umane.

Non sapete più distinguere.

Se oggi vi fanno vedere "Ladri di biciclette" dite: "E' troppo di nicchia"

Di "Natale a Rio" dite: "Però funziona".

Voi ve lo meritate, Christian De Sica. Passateci il Natale. Funziona.

Io vado altrove, ci rivediamo il 7 gennaio.

domenica 21 dicembre 2008

Io Celebro

Dimmi, qual è il tuo compito, Poeta?
- Io celebro.
Ma il Mostruoso e il Micidiale,
come l'accetti, come lo sopporti?
- Io celebro.
Ma il Senzanome, ma l'Anonimo,
come, Poeta, tuttavia lo nomini?
- Io celebro
Donde trai il tuo diritto d'esser vero
in ogni maschera, in ogni costume?
- Io celebro
E come può la quiete ed il furore
conoscerti, la stella e la tempesta?
: - perché io celebro.
(Rainer Maria Rilke)

martedì 9 dicembre 2008

postato da Repubblica : votate la crisi

Adesso io non so se avete letto la notizia. Diceva che la General Motors, a causa della crisi di vendite d'auto, ha rescisso il contratto pubblicitario che la legava al golfista Tiger Woods. Non gli darà più 7 milioni di dollari l'anno per mettere un adesivo GM sulla sacca delle mazze.

Ora, la domanda è: perché lo faceva? Hanno mai stabilito quanta gente mentre guarda in tv un Master di golf vedendo una patacca sulla sacca pensa: "Ah ecco che auto mi compro: una della General Motors! Ero indeciso, ma ora che ho visto lo stemma vicino alle mazze di Tiger...". Esiste almeno un imbecille che ragiona così? Sette milioni di dollari l'anno per convincerlo a comprare un'auto da 50mila dollari? E' un buon affare? Quanti stipendi di operai di Detroit sono 7 milioni di dollari? Chi decide gli investimenti della GM? Quanto guadagna? E' stato almeno licenziato, spernacchiato, menato? Quanti altri adesivi del genere piazzano e a che costi?

Oddio, la crisi! Fuggono gli sponsor! Sarà davvero un problema rivedere le maglie dei calciatori senza scritte? Non erano così trent'anni fa? Certo, però, oddio, le squadre avevano meno soldi. Giusto. E una rosa di 18 giocatori più i primavera da lanciare, meno ingaggi da pagare, più indigeni in campo. Non è quello che si vorrebbe ottenere? Una bella Ferrari rossa senza patacchini non è meglio?

Tagliate gli adesivi, tagliate le scritte, tagliate la pubblicità in tv, alè, evviva, programmi senza interruzioni e crisi a Mediaset. E crisi di governo.

Solo la crisi può salvarci dalla Crisi.

mercoledì 29 ottobre 2008

Barack: sette giorni per cambiare l'America

Barack: sette giorni
per cambiare l'America


Barak Obama
DOPO decenni di politica discontinua a Washington, dopo otto anni di politica fallita con George Bush, e dopo ventuno mesi di una campagna elettorale che ci ha portato dalle coste rocciose del Maine al Sole della California, ormai manca soltanto una settimana per cambiare l'America.

Tra una settimana potrete finalmente voltare pagina, cambiare la politica che ha messo l'avidità e l'irresponsabilità di Wall Street al di sopra del duro lavoro e dei sacrifici delle persone comuni di Main Street. Tra una settimana potrete scegliere le politiche che riguardano la nostra middle-class, creare nuovi posti di lavoro, far crescere dal basso questa economia così che chiunque abbia la sua chance di avere successo, dall'amministratore delegato alla segretaria fino al custode, dal proprietario della fabbrica fino agli uomini e alle donne che lavorano nei suoi stabilimenti.

Tra una settimana potrete porre fine alla politica che vorrebbe dividere una nazione per vincere un'elezione, che cerca di scagliare una regione contro l'altra, la grande città contro la piccola città, i Repubblicani contro i Democratici, che ci chiede di avere paura in un'epoca nella quale dobbiamo sperare.
Tra una settimana, in quel preciso momento così decisivo della storia, voi potrete dare a questo Paese il cambiamento di cui abbiamo bisogno. Ho iniziato questo lungo cammino nei rigori invernali di quasi due anni fa, sui gradini dell'Old State Capitol di Springfield in Illinois.

A distanza di ventuno mesi da allora, la mia fiducia nel popolo americano è stata premiata. È così che siamo arrivati così lontano e così vicini alla meta: grazie a voi. Ecco come cambieremo questo Paese: con il vostro aiuto. Ecco perché non possiamo permetterci di demordere, di rilassarci, di sprecare anche un solo giorno, un solo minuto, un solo secondo di quest'ultima settimana che resta. Non adesso. Non quando la posta in gioco è così alta.

Ci troviamo nel bel mezzo della peggior crisi economica ci sia mai stata dalla Grande Depressione. L'ultima cosa che possiamo permetterci è un ulteriore periodo di quattro anni nel quale nessuno a Washington dà un'occhiata a ciò che accade a Wall Street, perché i politici e i lobbisti hanno soppresso qualsiasi normativa di buon senso. Quelle sono le teorie che ci hanno messo nei guai: non funzionano ed è giunto il momento di cambiare. Ecco per quale motivo mi candido alla presidenza degli Stati Uniti.

Io non credo in ogni caso che il governo possa o debba cercare di risolvere tutti i nostri problemi. So che neanche voi lo credete. Credo però che il governo dovrebbe fare ciò che noi non possiamo fare da soli: proteggerci dai pericoli, fornire un'educazione decorosa ai nostri bambini, investire in nuove strade, in nuove ricerche scientifiche e tecnologiche. Cerchiamo di capirci: se vogliamo superare questa crisi dobbiamo andare oltre i vecchi dibattiti ideologici e le divisioni tra destra e sinistra. Non ci occorre un governo più piccolo o un governo più grande. Ce ne serve uno migliore, un governo più competente, un governo che sostenga i valori che noi come americani condividiamo.

Io so che cambiare è possibile. Lo so perché l'ho visto nel corso degli ultimi ventuno mesi. Perché in questa campagna io ho avuto il privilegio di assistere a ciò che di meglio c'è in America.
Tra una settimana potremo scegliere un'economia che ricompensa il lavoro e crea nuovi posti di lavoro alimentando il benessere dal basso verso l'alto. Tra una settimana potremo scegliere di investire nell'assistenza sanitaria per le nostre famiglie, potremo scegliere l'educazione per i nostri figli, e fonti di energia rinnovabile per il nostro futuro. Tra una settimana potremo scegliere la speranza invece della paura, l'unità al posto della divisione, la promessa di cambiamento piuttosto che il potere dello status quo.

Tra una settimana potremo essere uniti come un'unica nazione, un unico popolo, e una volta di più scegliere la nostra storia migliore.
Questa è la posta in gioco. Per questo ci stiamo battendo. Grazie, Dio vi benedica e Dio benedica l'America.
(Traduzione di Anna Bissanti)
(28 ottobre 2008)

mercoledì 8 ottobre 2008

Il Mondo Drogato della Vita a Credito, di Zygmunt Bauman

Il mondo drogato
della vita a credito
di ZYGMUNT BAUMAN

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.

C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.

L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.

Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.

Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.

Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.

L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare...

Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.

La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.

Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.

Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)
(8 ottobre 2008)

martedì 9 settembre 2008

Master Thesis - Tesi di Master - 碩士論文

Ciao a tutti, da oggi e` disponibile sul web la mia tei di master, scritta in Inglese e che ha per titolo "il culto degli Antenati nella Chiesa Cattolica Taiwanese" ---

Hello everybody, my Master's Thesis in available on my web page www.tesi2008.it.gg It is wrote in English and the title is: The Ancestors' Rites in the Taiwanese Catholic Church" ---

大家好,從今天你可以下載我的碩士論文:臺灣天主教的祖先敬拜禮儀 ---

venerdì 29 agosto 2008

Perché è morto il capitano Cook?

La figura del Capitano Cook è una di quelle più circondate da un alone da leggenda. Collocato in un'epoca posteriore a quella definita delle grandi scoperte (quella di colombo, Diaz, Magellano per intenderci), questo inglese tutto di un pezzo fu comunque uno dei più grandi esploratori che il nostro mondo conobbe. Fece tre viaggi nell'Oceano Pacifico durante i quali scoprì varie isole mappandone le coste. Il primo viaggio fu effettuato dal 1768 al 1771; in questo primo viaggio, effettuato per osservare il transito di Venere accanto al sole, portato dalla ricerca del mitico continente terra australis, arrivò fino in Nuova Zelanda e in Australia. Questo primo viaggio fu contraddistinto dalla morte di maggior parte del suo equipaggio a causa di epidemie di scorbuto e di malaria contratte nel viaggio. Il secondo viaggio, che aveva lo scopo specifico di scoprire il continente terra australis, arrivò nella terra del fuoco e da li scoprì poi la Nuova Georgia, Tonga e l'isola di Pasqua. Più importante è il terzo viaggio, soprattutto per la sua drammatica conclusione. Il Capitano Cook infatti, dopo che nel 1778 divenne il primo europeo a visitare le isole, che lui denominò Sandwich, vi morì il 14 febbraio 1779. Il 14 febbraio presso la baia di Kealakekua alcuni indigeni rubarono una delle scialuppe. Questo genere di furti era abbastanza normale e solitamente alcuni indigeni venivano presi in ostaggio per ottenere la restituzione del maltolto. Cook, in preda all'irrazionalità, ebbe un violento alterco con un folto gruppo di locali, nella disputa furono esplosi alcuni colpi d'arma da fuoco e Cook venne accoltellato a morte. Questo almeno è quanto raccontano le storiografie occidentali. Un altro punto di vista è quello presentato da Marshal Sahlins, un autorevole antropologo Statunitense. Nel suo libro “Isole di Storia” l'autore propone una interessante rivisitazione di questo evento storico. Cook arrivò per caso sulla spiaggia nella Hawaii proprio nel corso di una grande cerimonia chiamata Makahiki che celebrava l'annuale rinascita della natura, del Dio Lono, simbolizzato da una gigantesca pella di tapa e da una immagine di uccello portata in parata in senso orario attorno all'isola per un mese. Gli hawaiani dividevano l'anno lunare in due periodi. Uno era il tempo di Makahiki, quando la pace, i sacerdoti indigeni di Kuali'l e il dio della fertilità, Lono, regolavano la vita e il re era inattivo. Durante il resto dell'anno, dopo che Lono, voltata la sua immagine di uccello, se n'era di nuovo andato, veniva un tempo di guerra in cui i sacerdoti immigrati Nahulu e il dio della virilità , Ku, erano dominanti ed il re era attivo. Cook, che arrivò dalla giusta direzione e nel modo giusto, fu considerato dagli hawaiani, o almeno dai vari sacerdoti coinvolti, come fosse Lono in carne ed ossa, e fu consacrato come tale per mezzo dei più elaborati riti nel grande tempio dell'isola. Poi, per sue proprie ragioni, ma di nuovo in accordo accidantale con il calendario che governava il Makahiki, egli partì per dove era venuto. Poco dopo essere salpato, tuttavia, la rottura di un albero lo costrinse a ritornare sulla spiaggia per le riparazioni. Questo movimento al di fuori dello schema fu interpretato dagli hawaiani come un disordine cosmologico, un disordine che faceva presagire, se gli fosse stato permesso di progredire, un sovvertimento sociale e politico. Questo portò piuttosto rapidamente alla miserevole fine di Cook, che fu pugnalato e bastonato a morte in mezzo a centinaia di hawaiani inferociti dopo essere arrivato furioso a riva, sparando all'impazzata qua e la con la sua pistola. Consacrato come un dio poiché arrivato nel momento giusto e nel modo giusto, egli fu ucciso come un dio, ossia sacrificato per mantenere intatta e non rovesciata la struttura, perché ritornò alle Hawaii nel modo sbagliato e nel momento sbagliato. Una interessante rilettura in chiave culturale di un episodio storico. Un nuovo modo di leggere la storia dal punto di vista dei nativi e non da quello dei colonizzatori. Un buon metodo per saper leggere e rileggere fatti accaduti nel passato e che hanno da sempre stimolato la fantasia e la curiosità di tutti noi. Marco L..

La cultura del diverso

Il primo maggio (2008) oltre che dalle storiche manifestazioni in piazza San Giovanni a Roma e da quelle più moderne di Beppe Grillo a Torino, siamo stati colpiti anche da un'altra tragica notizia. Un giovane di 29 anni è stato massacrato da un gruppo di ragazzi, pare per essersi rifiutato di offrire una sigaretta. Dopo le richieste della madre del ragazzo e soprattutto dopo che la digos aveva cominciato a stringere il cerchio dei possibili autori dell'increscioso fatto un ragazzo si è spontaneamente presentato dai carabinieri per autodenunciarsi. Il ragazzo di 19 anni interrogato dal magistrato Francesco Rombaldoni, titolare dell'inchiesta, ha reso "piena confessione". E' un ultrà neofascista già responsabile di aggressioni a sfondo razzista e violenze negli stadi. L'avvocato del diciannovenne parla di una lite degenerata e sostiene che il suo assistito, che frequenta il liceo classico, non intendeva uccidere. Il legale aggiunge anche che il padre e la madre del giovane "sono distrutti da una situazione spaventosa". Intanto le condizioni del giovane in ospedale non danno segni di miglioramento. Intanto la caccia agli altri quattro aggressori continua. Due di loro sono stati individuati dalla polizia ma sono già fuggiti all'estero dove sono ricercati. I giovani, tutti di buona famiglia, gravitavano intorno a gruppi di estrema destra. Si è fatto il nome anche di Forza Nuova, una delle più influenti associazioni legate all'estrema destra, ma il rappresentante si dissocia in pieno dalla violenza "I nostri militanti non compirebbero mai un atto di così grave stupidità e cattiveria; se poi il ragazzo frequenta ambienti ultras o piazze dove si ritrovano neofascisti, questo è un altro discorso, non collegabile a Forza Nuova". Anche il "Veneto Fronte Skinheads" nega di essere coinvolto. "Il ragazzo - afferma il presidente Giordano Caracino - dalle informazioni che abbiamo, non fa parte del Fvs, non lo conosciamo. Non basta avere i capelli corti, un bomber o avere certe idee per far parte del nostro movimento". Tutti prendono le distanze da questo agghiacciante violenza. E mentre a destra si prendono le distanze a sinistra si comincia ad accusare, il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, si è espresso dicendo che "siamo davanti ad una aggressione di tipo neofascista che non può e non deve essere sottovalutata. Esistono tante bande di questo tipo e ciò è tanto più pericoloso in un clima culturale e politico nel quale si vanno affermando principi di intolleranza e di odio verso i più deboli o addirittura una sottocultura di violenza e prepotenza talvolta persino mascherata sotto il falso concetto del farsi giustizia da soli". E qui sta a mio avviso il punto. La domanda che dobbiamo porci è questa: quanto questo clima di divisione accentuato dalla recente campagna elettorale, quanto affermazioni di politici nostrani che si dicono pronti a radunare eserciti di gente armata, o di sindaci che il giorno stesso della loro elezione annunciano la cacciata degli stranieri dal suolo comunale, quanto queste affermazioni fomentano un clima di odio e di tensione? Certamente questo fatto va visto in luce del disagio giovanile e sociale di questo periodo, ma sui carboni di questa situazione già in se poco stabile si sta soffiando da molte parti per accendere, inconsciamente mi auguro, le braci della violenza, della divisione. Per propagare una mentalità che mi costringa a vedere l'altro come il diverso ed il diverso da me come il male assoluto. La gang che ha massacrato il ragazzo non era sconosciuta alle forze dell'ordine e si compone di circa 17 persone di età compresa tra i 17 e i 25 anni, insospettabili figli di professionisti e irreprensibili operai. Per il procuratore di Verona Guido Papalia, "fanno parte di un'area nuova dell'estrema destra che si è aggregata spontaneamente". "Non sono militanti effettivi di gruppi neonazisti organizzati - aggiunge - anche se praticano le stesse ideologie, li abbiamo trovati con gli stessi simboli nazisti". Ma da dove nasce questa spontaneità se non da questo senso di estraniamento da un contesto culturale più che sociale? Sarebbe il caso che i nostri politici e chi detiene il controllo dei mass media riflettesse su queste cose. Parlare non costa nulla e parlare per televisione rilasciando interviste da nessuna parte come in Italia non comporta alcun rischio. Forse nessun rischio personale per il politico che parla, ma si rischia di sfasciare del tutto un tessuto sociale già di per se troppo traballante. A questo punto verrebbe da dire, chi rompe non paga, ma i cocci sono comunque anche suoi. Marco L.