mercoledì 20 settembre 2023

Umberto Eco e il suo Realismo Negativo.

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.

In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.

Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.

Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).

L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.

Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.

Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta.

Ma se questo è stato il postmodernismo in architettura, arte e letteratura, che cosa aveva o ha in comune col postmodernismo filosofico, almeno quale lo si fa nascere con Lyotard? Certamente, teorizzando la fine delle grandi narrazioni e di un concetto trascendentale di verità, si riconosce l’inizio di epoca del disincanto – e nel celebrare la perdita della totalità e dando il benvenuto al molteplice, al frammentato, al polimorfo, all’instabile, il postmodernismo filosofico mostra alcune connessioni con l’ironia metanarrativa o con la rinuncia dell’architettura a prescrivere modi di vita razionali. Ma queste analogie, questa comunità di clima culturale, non sembrano aver alcuna connessione diretta con la questione del realismo, perché si può essere polimorfi e disincantati, rinunciare ai grandi racconti per coltivare saperi locali, senza per questo mettere in dubbio un rapporto quasi vetero-realistico con le cose di cui si parla. Caso mai verrebbe messo in dubbio il sapere degli universali, non la credenza anche fortissima nella persistenza dei particolari e nella nostra capacità di conoscerli per quel che sono (e in tal senso sarei tentato di ascrivere a una temperie postmoderna anche la teoria kripkiana della designazione rigida – e infine ricordiamo che il passaggio da Tommaso a Ockham, se sancisce la rinuncia agli universali, non mette in crisi i concetti di realtà e di verità).

Quello che piuttosto emerge (nel cosiddetto postmodernismo filosofico), passando attraverso la decostruzione (sia quella di Derrida sia quella d’oltre oceano, che è solo un articolo prodotto dall’industria accademica americana su licenza francese) e le forme del pensiero debole, è un tratto molto riconoscibile (su cui in effetti si accentra la polemica di Ferraris), e cioè il primato ermeneutico dell’interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni.

A questa curiosa eresia avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell’interpretazione, partendo dall’ovvio principio che, perché ci sia interpretazione ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l’interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto – e che in ogni caso il regressum ad infinitum dovrebbe a un certo punto arrestarsi a ciò da cui era partito e che Peirce chiamava l’Oggetto Dinamico. Ovvero ritenevo che, quand’anche conoscessimo I promessi sposi solo attraverso l’interpretazione che ne dava Moravia nell’edizione Einaudi, quando avessimo dovuto interpretare l’interpretazione di Moravia avremmo avuto davanti a noi un fatto innegabile, il testo di Moravia, punto ineliminabile di riferimento per chiunque avesse voluto, sia pure liberissimamente, interpretarlo, e dunque fatto intersoggettivamente verificabile.

È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni anche il più assatanato tra i post modernisti è pronto ad asserire che lui o lei non hanno mai negato la presenza fisica non solo dell’edizione Einaudi dei Promessi sposi, ma anche del tavolo a cui sto parlando. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo si interpreta come supporto per un’operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi durante un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi così, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali tra Torino e Agognate lungo l’autostrada per Milano. Eppure questa forte limitazione alle interpretazioni possibili del tavolo era prevista dal suo costruttore, che seguiva il progetto di qualcosa interpretabile in molti modi ma non in tutti.

L’argomento, che non è paradossale, bensì di assoluto buon senso, dipende dal problema delle cosiddette affordances teorizzate da Gibson (e che Luis Prieto avrebbe chiamato pertinenze), ovvero dalle proprietà che un oggetto esibisce e che lo rendono più adatto a un uso piuttosto che a un altro. Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell’esistenza o meno di criteri d’interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco.

Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell’intervento poi consegnato da Rorty all’editore l’allusione alla grattata d’orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l’aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l’intervento orale. Possiamo astenerci dall’attribuirgli questo esempio non più documentato ma, visto che – se non lui – qualcun altro ha usato argomenti consimili, posso ricordare la mia contro-obiezione di allora, basata proprio sulla nozione di affordance. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi d’entro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio.

Rorty aveva rinunciato all’argomento dell’orecchio, ma che dire di tanto decostruzionismo che rivisita l’antico detto di Valéry per cui il n’y a pas de vrai sens d’un texte e di Stanley Fish che nel suo There a Text in This Class? Consentiva alla libera interpretazione di ogni testo?

Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato non lontano da qui esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extramorale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l’intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individuale esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale».

L’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale.

A questo punto per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni.

Che questo sia un ottimo ritratto di come l’edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta a essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo, per esempio decidendo che avendo la febbre è più opportuno assumere aspirina che cocaina (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio.

Ovvero, a dir la verità, egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente. «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». Bella coincidenza, queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che «le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens», e nello stesso periodo vedeva «A noir, corset velu de mouches éclatantes» e «O suprème Clairon plein des strideurs étranges».

Così infatti per Nietzsche l’arte (e con essa il mito) «confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno». Un sogno fatto di alberi che nascondo ninfe, e di dèi in forma di toro che trascinano vergini.

Ma qui manca la decisione finale. O si accetta che quello che ci attornia, e il modo in cui abbiamo cercato di ordinarlo, sia invivibile, e lo si rifiuta, scegliendo il sogno come fuga dalla realtà (e si cita Pascal, per cui basterebbe sognare davvero tutte le notti di essere re, per essere felice – ma è Nietzsche stesso ad ammettere che si tratterebbe d’inganno, anche se supremamente giocondo), oppure, ed è quello che la posterità nicciana ha accolto come vera lezione, l’arte può dire quello che dice perché è l’essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione, e gode nel vedersi visto come mutevole, sognatore, estenuatamente vigoroso e vittoriosamente debole. Però, nello stesso tempo, non più come «pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e dolore» (e cito Vattimo, Le avventure della differenza, p. 84). L’essere allora può essere parlato solo in quanto è in declino, non s’impone ma si dilegua. Siamo allora a una «ontologia retta da categorie «deboli» (Vattimo p. 9). L’annuncio nicciano della morte di Dio altro non sarà che l’affermazione della fine della struttura stabile dell’essere (Introduzione al Pensiero debole, p. 1983: 21) L’essere si darà solo «come sospensione e come sottrarsi» (Vattimo Oltre l’interpretazione, p. 18).

In altre parole: una volta accettato il principio che dell’essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l’essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L’essere allora, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d’ogni ente una Chimera.

Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l’essere ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Qual è lo statuto ontologico di colui che dice che non vi è alcun statuto ontologico?

Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni «cattive». Dire che non c’è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d’assi l’altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l’essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d’assi?

Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SI a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno ad una risponde di NO.

Riflettiamo su questo NO, che sta alla base di quello che chiamerò il mio Realismo Negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d’interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch’essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo -e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda?

Poniamo pure, con Vattimo (Oltre l’interpretazione, p.100) una differenza tra epistemologia, che è «la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole la verifica delle proposizioni» (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell’universo concettuale di una data cultura) e ermeneutica come «l’attività che si dispiega nell’incontro con orizzonti paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si danno come proposte «poetiche» di mondi altri, di istituzione di regole nuove». Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all’esterno bensì all’interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall’ uomo – e ad essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili.

Di lì l’idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette.

Poniamo che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l’oeil che rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe l’oeil che intende ingannarmi, come porta vera (e aperta), come rappresentazione con finalità estetiche di una porta aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così via, forse all’infinito. Ma se l’interpreto come vera porta aperta e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro. Il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di interpretare si è ribellato alla mia interpretazione.

Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato «buone», debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuole dire che everything goes.

In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell’essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone. Chi ha mai detto che i fatti che interpreto possano pormi dei Limiti? Come posso fondare il concetto di Limite?

Questo potrebbe essere un semplice postulato dell’interpretazione, perché se assumessimo che delle cose si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della loro interrogazione continua. A questo punto anche il più radicale dei relativisti potrebbe decidere di assumere l’interpretazione del più radicale dei realisti vecchio stampo, visto che ogni interpretazione vale l’altra.

Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora.

Ciò che voglio dire ora si ispira a una teoria non metafisica ma semiotico-linguistica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su che cosa viene ritagliato? Su una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile – se volete, l’orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Chiamiamolo pure essere o Mondo, come ciò che presiede ogni costruzione e donazione di forma operata dal linguaggio. Parrebbe che, prima che una cultura non l’abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. E in tal senso Hjelmslev non avrebbe detto nulla di diverso da Nietzsche. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev chiamasse il continuo, in danese, mening, che è inevitabile tradurre con «senso» (ma non necessariamente nel senso di «significato» bensì nel senso di «direzione», nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati).

Che cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalle conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momento capire che per «senso» intende il fatto che espressioni diverse in lingue diverse come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuo ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui la sirloin steak americana non corrisponde a nessuna bistecca nostrana. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l’estremità del muso e la coda.

Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire.

Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire «sbattuto la testa» contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima.

Naturalmente ci sono dei gradi di costrizione. Si prendano due esempi, la confutazione del sistema tolemaico e quella dell’esistenza della Terra Australis Incognita come una immensa calotta -fertilissima- che avrebbe avvolto l’emisfero sud del pianeta. Quando vigevano le due ipotesi, ora refutate, il mondo noto permetteva di essere spiegato in modo verosimile e ragionevole: la teoria tolemaica per secoli ha dato ragione di moltissimi fenomeni, e la persuasione dell’esistenza di una terra australe ha incoraggiato innumerevoli viaggi di scoperta, che di quella terra avevano persino toccato le presunte propaggini. Poi si è scoperto che il sistema copernicano (con le varie correzioni apportatevi sino a Keplero) spiegava meglio i fenomeni celesti, e che la Terra Australe in quanto calotta globale non esiste. Potremmo persino pensare che un giorno – anche se per ora la teoria eliocentrica risponde a più quesiti e ci permette più previsioni di quanto non potesse la teoria geocentrica – emerga un sistema più esplicativo che mette in crisi entrambe le teorie. Ma per ora noi dobbiamo scommettere sul sistema di Keplero, come se fosse vero, e non possiamo usare più la teoria geocentrica. Quanto alla Terra Australe, nella misura in cui dobbiamo prestar fede ai dati di una esperienza provata da migliaia di testimoni e da misurazioni scientifiche, pare assolutamente impossibile affermare che esiste un continente che copre a calotta l’emisfero sud del pianeta, a meno che non decidiamo di definire come Terra Australis l’Antartide (ma si tratterebbe di un puro gioco sui nomi).

Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO. Questo NO è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione.

E qui debbo fare una precisazione, perché mi rendo conto che la metafora dello zoccolo duro può fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno o l’altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo; e nello stesso tempo la metafora può fare pensare che questo zoccolo, questi limiti di cui ho parlato, siano quelli che corrispondono alle leggi naturali. Vorrei chiarire (anche a costo di ripiombare nello sconforto gli ascoltatori che per un attimo avevano creduto di ritrovare una idea consolatoria della Realtà) che la mia metafora allude a qualcosa che sta ancora al di qua delle leggi naturali, che persisterebbe anche se le leggi newtoniane si rivelassero un giorno sbagliate – ed anzi sarebbe proprio quel qualcosa che obbligherebbe la scienza a rivedere persino l’idea di leggi che parevano definitivamente adeguare la natura dell’universo. Quello che voglio dire è che noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei «gesti di rifiuto», delle negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo.

Esiste uno Zoccolo Duro persino nel Dio delle religioni rivelate, dove Dio prescrive dei limiti persino a se stesso. C’è una bella Quaestio Quodlibetalis di San Tommaso in cui il filosofo chiede utrum Deus possit reparare virginis ruinam e cioè se Dio possa riparare al fatto che una vergine abbia perso la propria verginità. La risposta di San Tommaso è chiara: se la domanda riguarda questioni spirituali, Dio può certamente riparare al peccato commesso e restituire alla peccatrice lo stato di grazia; se riguarda questioni fisiche, Dio può con un miracolo ricostituire l’integrità fisica della fanciulla; ma se la questione è logica e cosmologica, ebbene, neppure Dio può fare che ciò che è stato non sia stato. Lascio da decidere se questa necessità sia stata posta liberamente da Dio o faccia parte della stessa natura divina. In ogni caso, dal momento che c’è, anche Dio ne è limitato.

Credo che ci siano dei rapporti tra questo mio modestissimo Realismo Negativo (per cui avvertiamo qualcosa fuori di noi e dalle nostre interpretazioni solo quando riceviamo un diniego) e l’idea popperiana per cui l’unica prova a cui possiamo sottoporre le nostre teorie scientifiche è quella della loro falsificabilità. Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene.

Credo di essermi attenuto a questo principio di realismo negativo sin da quando, all’inizio degli anni Sessanta, nel sostenere l’indispensabile collaborazione del fruitore a ogni testo artistico, intitolavo il mio libro Opera Aperta. Questo apparente ossimoro mirava a sostenere che l’apertura, potenzialmente infinita, si misurava di fronte all’esistenza concreta dell’opera da interpretare.

Che era poi da parte mia una ripresa dell’idea pareysoniana che l’interpretazione si articola sempre in una dialettica di iniziativa dell’interprete e fedeltà alla forma da interpretare.

Infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il più selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno.

Potrei tradurre questa mia idea di Realismo Negativo in termini peirceani. Ogni nostra interpretazione è sollecitata da un Oggetto Dinamico che noi conosceremo sempre e solo attraverso una serie di Oggetti Immediati (l’Oggetto Immediato essendo già un segno, che può essere chiarito solo da una serie successiva di Interpretanti, ciascun interpretante successivo spiegando sotto un certo profilo il precedente, in un processo di semiosi illimitata). Ma nel corso di questo processo produciamo degli Abiti, delle forme di comportamento, che ci portano ad agire sull’Oggetto Dinamico da cui eravamo partiti e a modificare la Cosa in Sé da cui eravamo partiti, offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi. Questi abiti possono avere o meno successo, ma quando non l’ottengono il principio del fallibilismo deve portarci a ritenere che alcune delle nostre interpretazioni non erano adeguate.

È sufficiente intrattenere questa idea minimale di realismo, che coincide benissimo col fatto che conosciamo i fatti solo attraverso il modo in cui li interpretiamo? Una volta Searle aveva detto che realismo significa che siamo convinti che le cose vadano in un certo modo, che forse non riusciremo mai a decidere in che modo vadano, ma che siamo sicuri che esse vadano in un certo qual modo anche se non sapremo mai quale. E questo ci basta per credere (e qui Peirce viene in soccorso a Searle) che in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità.

La forma modesta del Realismo Negativo non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso.





venerdì 9 settembre 2022

P.P.P. Contro i Capelloni

 7 gennaio 1973. Il <<Discorso dei capelli >>

Nel << Corriere della sera >> col titolo << Contro i capelli lunghi >> Scritti corsari, pag 5

La prima volta che ho visto i capelloni, è stato a Praga. Nella hall dell’albergo dove alloggiavo sono entrati due giovani stranieri, con i capelli lunghi fino alle spalle. Sono passati attraverso la hall, hanno raggiunto un angolo un po’ appartato e si sono seduti a un tavolo. Sono rimasti lì seduti per una mezzoretta, osservati dai clienti, tra cui io; poi se ne sono andati. Sia passando attraverso la gente ammassata nella hall, sia stando seduti nel loro angolo appartato, i due non hanno detto parola (forse — benché non lo ricordi — si sono bisbigliati qualcosa tra loro: ma, suppongo, qualcosa di strettamente pratico, inespressivo).

Essi, infatti, in quella particolare situazione — che era del tutto pubblica, o sociale, e, starei per dire, ufficiale — non avevano affatto bisogno di parlare. Il loro silenzio era rigorosamente funzionale. E lo era semplicemente, perché la parola era superflua. I due, infatti, usavano per comunicare con gli astanti, con gli osservatori — coi loro fratelli di quel momento — un altro linguaggio che quello formato da parole.

Ciò che sostituiva il tradizionale linguaggio verbale, rendendolo superfluo — e trovando del resto immediata collocazione nell’ampio dominio dei «segni», nell’ambito cioè della semiologia — era il linguaggio dei loro capelli.

Si trattava di un unico segno — appunto la lunghezza dei loro capelli cadenti sulle spalle — in cui erano concentrati tutti i possibili segni di un linguaggio articolato. Qual era il senso del loro messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico?

Era questo: «Noi siamo due Capelloni. Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro in America e che, in provincia (come per esempio — anzi, soprattutto — qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste la lunghezza dei nostri capelli li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi.»

Io fui destinatario di questa comunicazione, e fui anche subito in grado di decifrarla: quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel «linguaggio della presenza fisica» che da sempre gli uomini sono in grado di usare.

Capii, e provai una immediata antipatia per quei due. Poi dovetti rimangiarmi l’antipatia, e difendere i capelloni dagli attacchi della polizia e dei fascisti: fui naturalmente, per principio, dalla parte del Living Theatre, dei Beats ecc.: e il principio che mi faceva stare dalla loro parte era un principio rigorosamente democratico.

I capelloni diventarono abbastanza numerosi — come i primi cristiani: ma continuavano a essere misteriosamente silenziosi; i loro capelli lunghi erano il loro solo e vero linguaggio, e poco importava aggiungervi altro. Il loro parlare coincideva col loro essere. L’ineffabilità era l’ars retorica della loro protesta.

Cosa dicevano, col linguaggio inarticolato consistente nel segno monolitico dei capelli, i capelloni nel ’66-67?

Dicevano questo: «La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo la follia a un destino di “executives”. Creiamo nuovi valori religiosi nell’entropia borghese, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente».

Non credo che, se interrogati secondo il sistema tradizionale del linguaggio verbale, essi sarebbero stati in grado di esprimere in modo così articolato l’assunto dei loro capelli: fatto sta che era questo che essi in sostanza esprimevano. Quanto a me, benché sospettassi fin da allora che il loro «sistema di segni» fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere, e che la loro rivoluzione non marxista fosse sospetta, continuai per un pezzo a essere dalla loro parte, assumendoli almeno nell’elemento anarchico della mia ideologia. Il linguaggio di quei capelli, anche se ineffabilmente, esprimeva «cose» di Sinistra. Magari della Nuova Sinistra, nata dentro l’universo borghese (in una dialettica creata forse artificialmente da quella Mente che regola, al di fuori della coscienza dei Poteri particolari e storici, il destino della Borghesia).

Venne il 1968. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Studentesco; sventolarono con le bandiere rosse sulle barricate. Il loro linguaggio esprimeva sempre più «cose» di Sinistra. (Che Guevara era capellone ecc.)

Nel 1969 — con la strage di Milano, la Mafia, gli emissari dei colonnelli greci, la complicità dei Ministri, la trama nera, i provocatori — i capelloni si erano enormemente diffusi: benché non fossero ancora numericamente la maggioranza, lo erano però per il peso ideologico che essi avevano assunto. Ora i capelloni non erano più silenziosi: non delegavano al sistema segnico dei loro capelli la loro intera capacità comunicativa ed espressiva. Al contrario, la presenza fisica dei capelli era, in certo modo, declassata a funzione distintiva. Era tornato in funzione l’uso tradizionale del linguaggio verbale. E non dico verbale per puro caso. Anzi, lo sottolineo. Si è parlato tanto dal ’68 al ’70, tanto, che per un pezzo se ne potrà fare a meno: si è dato fondo alla verbalità, e il verbalismo è stata la nuova ars retorica della rivoluzione (gauchismo, malattia verbale del marxismo!).

Benché i capelli — riassorbiti nella furia verbale — non parlassero più autonomamente ai destinatari frastornati, io trovai tuttavia la forza di acuire le mie capacità decodificatrici, e, nel fracasso, cercai di prestare ascolto al discorso silenzioso, evidentemente non interrotto, di quei capelli sempre più lunghi.

Cosa dicevano, essi, ora? Dicevano: «Sì, è vero, diciamo cose di Sinistra; il nostro senso — benché puramente fiancheggiatore del senso dei messaggi verbali — è un senso di Sinistra… Ma… Ma…».

Il discorso dei capelli lunghi si fermava qui: lo dovevo integrare da solo. Con quel «ma» essi volevano evidentemente dire due cose: 1) «La nostra ineffabilità si rivela sempre più di tipo irrazionalistico e pragmatico: la preminenza che noi silenziosamente attribuiamo all’azione è di carattere sottoculturale, e quindi sostanzialmente di destra». 2) «Noi siamo stati adottati anche dai provocatori fascisti, che si mescolano ai rivoluzionari verbali (il verbalismo può portare però anche all’azione, soprattutto quando la mitizza): e costituiamo una maschera perfetta, non solo dal punto di vista fisico — il nostro disordinato fluire e ondeggiare tende a omologare tutte le facce — ma anche dal punto di vista culturale: infatti una sottocultura di Destra può benissimo essere confusa con una sottocultura di Sinistra».

Insomma capii che il linguaggio dei capelli lunghi non esprimeva più «cose» di Sinistra, ma esprimeva qualcosa di equivoco, Destra-Sinistra, che rendeva possibile la presenza dei provocatori.

Una diecina d’anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un provocatore era quasi inconcepibile (se non a patto che fosse un grandissimo attore): infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura. L’avremmo conosciuto dagli occhi, dal naso, dai capelli! L’avremmo subito smascherato, e gli avremmo dato subito la lezione che meritava. Ora questo non è più possibile. Nessuno mai al mondo potrebbe distinguere dalla presenza fisica un rivoluzionario da un provocatore. Destra e Sinistra si sono fisicamente fuse.

Siamo arrivati al 1972.

Ero, questo settembre, nella cittadina di Isfahan, nel cuore della Persia. Paese sottosviluppato, come orrendamente si dice, ma, come altrettanto orrendamente si dice, in pieno decollo.

Sull’Isfahan di una diecina di anni fa — una delle più belle città del mondo, se non chissà, la più bella — è nata una Isfahan nuova, moderna e bruttissima. Ma per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una diecina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti. Ed ecco che una sera, camminando per la strada principale, vidi, tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana, due esseri mostruosi: non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all’europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie.

Che cosa dicevano questi loro capelli? Dicevano: «Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche! Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l’Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati!»

Quei capelli lunghi alludevano dunque a «cose» di Destra.

Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di una «estrema destra» reale.

Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri – che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente — alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l’isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico — sia pur drammatico ed estremizzato – essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l’isolamento in cui si sono chiusi — come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù — li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato — fatalmente — un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre.

Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.

Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda.

giovedì 1 settembre 2022

Il Mestiere dell'Antropologo: Umberto Eco, Industria e repressione sessuale in una società padana



La presente inchiesta elegge come campo di indagine l’agglomerato di Milano alla propaggine nord della penisola italiana, un protettorato vaticano del Gruppo delle Mediterranee. Milano si trova circa a 45 gradi di latitudine nord dall’Arcipelago della Melanesia e a circa 35 gradi di latitudine sud dall’Arcipelago di Nansen nel Mar Glaciale Artico. Si trova quindi in una posizione pressoché mediana rispetto alle terre civili e se pure fosse più facilmente raggiungibile dalle popolazioni eschimesi tuttavia è rimasta al di fuori dei vari itinerari etnografici.


Debbo il consiglio di una indagine su Milano al Professor Korao Paliau dell’Anthropological Institute delle Isole dell’Ammiragliato e ho potuto condurre la mia inchiesta grazie al generoso aiuto della Aborigen Foundation of Tasmania che mi ha fornito un grant di ventiquattromila denti di cane per affrontare le spese di viaggio ed equipaggiamento.


Non avrei peraltro potuto stendere queste note con la dovuta tranquillità, riesaminando il materiale raccolto al ritorno dal mio viaggio, se il Signore e la Signora Pokanau dell’Isola di Manus non mi avessero messo a disposizione una palafitta isolata dal consueto clangore dei pescatori di trepang e dei mercanti di copra che purtroppo hanno reso infrequentabili certe zone del nostro dolce arcipelago. Né avrei peraltro potuto correggere le bozze e riunire le note bibliografiche senza l’affettuosa assistenza di mia moglie Aloa che spesso ha saputo interrompere la confezione di collane di fiori del pua per correre all’arrivo del battello postale e trasportarmi alla palafitta [63] le enormi casse di documenti che via via richiedevo all’Anthropological Documentation Center di Samoa e che per me sarebbero state di troppo peso.

Per anni chi si è avvicinato agli usi e ai costumi dei popoli occidentali lo ha fatto muovendo da uno schema teorico a priori che ha bloccato ogni possibilità di comprensione. Il condannare gli occidentali come popoli primitivi, solo perché son dediti al culto della macchina, ancora lontani da un contatto vivo con la natura, ecco un esempio dell’armamentario di false opinioni con cui i nostri antenati hanno giudicato gli uomini incolori e gli europei in particolare.


Una malintesa impostazione storicistica induceva a credere che in tutte le civiltà si attuino dei cicli culturali analoghi, per cui esaminando a esempio il comportamento di una comunità anglosassone si riteneva che essa si trovasse semplicemente a una fase antecedente alla nostra e che un suo successivo sviluppo avrebbe portato un abitante di Glasgow a comportarsi come un melanesiano.


Si deve quindi all’opera illuminata della dottoressa Poa Kilipak se si è andato affermando il concetto di “modello culturale” con le stupefacenti conclusioni che comportava: un abitante di Parigi vive secondo un complesso di norme e di abitudini che si integrano in un tutto organico e formano una determinata cultura, valida come la nostra seppure di modi diversi.


Di qui si aprì la via per una retta indagine antropologica sull’uomo incolore e per una comprensione della civiltà occidentale (poiché – e si potrà anche accusarmi di cinico relativismo – di civiltà si tratta, anche se non segue i modi della nostra civiltà. E non è detto, me lo si permetta, che cogliere noci di cocco salendo a piedi nudi su di una palma costituisca un comportamento superiore a quello del primitivo che viaggia in jet mangiando patatine da un sacchetto di plastica).


Ma anche il metodo della nuova corrente antropologica poteva dar adito a gravi equivoci; come a esempio quando il ricercatore, proprio per l’aver riconosciuto dignità di cultura al “modello” studiato, si rifaceva ai documenti storici direttamente prodotti dagli indigeni soggetti a descrizione, desumendo da quelli le caratteristiche del gruppo stesso [64].

 […]


2. La “Pensée Sauvage” (Saggio di ricerca sul campo)

tramLa giornata dell’indigeno milanese si svolge secondo i ritmi solari elementari. Di buonora esso si sveglia per recarsi alle incombenze tipiche di questa popolazione, raccolta di acciaio nelle piantagioni, coltivazione di profilati metallici, concia di materie plastiche, commercio di concimi chimici con l’interno, semina di transistori, pascolo di lambrette, allevamento di alfaromeo e così via.


L’indigeno tuttavia non ama il suo lavoro e fa il possibile per evitare il momento in cui lo inizierà; quello che è curioso è che i capi del villaggio [67] paiono assecondarlo, eliminando ad esempio le vie consuete di trasporto, divellendo le rotaie dei primitivi tramways, confondendo la circolazione con larghe strisce gialle dipinte lungo le mulattiere (con chiaro significato di tabù) e infine scavando profonde buche nei punti più inopinati, dove molti’indigeni precipitano e vengono probabilmente sacrificati alle divinità locali.


È difficile spiegare psicologicamente l’attitudine dei capi del villaggio, ma questa distruzione rituale delle comunicazioni è legata senza dubbio a riti di risurrezione (si pensa ovviamente che costringendo schiere di abitanti nelle viscere della terra, dalla loro immolazione quale seme, nasceranno altri individui più forti e robusti).


Ma la popolazione ha immediatamente reagito con una chiara sindrome nevrotica a questo atteggiamento dei capi, elaborando un culto nato apparentemente per generazione spontanea, vero e proprio esempio di esaltazione collettiva: il “culto della metropolitana da carico” (tube cult).


Ad epoche determinate si propaga cioè per la città “Il Rumore”, e gli indigeni vengono posseduti dalla fiducia quasi mistica che un giorno enormi veicoli si muoveranno nelle viscere della terra trasportando ogni individuo a velocità miracolosa in qualsiasi punto del villaggio. Il Dr. Muapach, un serio e preparato membro della mia spedizione, si è chiesto anzi a un certo punto se “Il Rumore” traesse origine da qualche fatto reale, ed è sceso in queste caverne: ma non vi ha trovato nulla che potesse sia pure lontanamente giustificare la diceria.


corriereChe i capi della città tengano a mantenere la popolazione in uno stato di incertezza è provato da un rituale mattutino, la lettura di una sorta di messaggio ieratico che i capi fanno pervenire ai loro sudditi sul far dell’alba, il “Corriere della Sera”: la natura ieratica del messaggio è sottolineata dal fatto che le nozioni che comunica sono puramente astratte e prive di alcun riferimento con la realtà; in altri casi il riferimento, come abbiamo potuto verificare, è apparente, così che all’indigeno viene prospettata una sorta di controrealtà o realtà ideale nella quale egli presume di muoversi come in una foresta [68] dalle viventi colonne, vale a dire in un mondo eminentemente simbolico e araldico.


Tenuto costantemente in questo stato di smarrimento, l’indigeno vive in una persistente tensione che i capi gli permettono di scaricare solo nelle festività collettive, quando la popolazione si riversa a frotte in costruzioni immense di forma elissoidale dalle quali proviene senza interruzione un clamore spaventoso.


Inutilmente abbiamo tentato di entrare in una di queste costruzioni; con una diplomazia primitiva ma smaliziatissima gli indigeni ce lo hanno sempre impedito, pretendendo che noi si esibisse per l’accesso dei messaggi simbolici che apparentemente risultavano in vendita, ma per i quali ci è stato chiesto un tale quantitativo di denti di cane che noi non avremmo potuto pagare senza dovere in seguito abbandonare la ricerca.


Costretti dunque a seguire la manifestazione dall’esterno, dapprima si era formulata l’ipotesi, avallata dai rumori fragorosi e isterici, che si trattasse di riti orgiastici; ma in seguito ci si è fatta chiara l’orribile verità. In questi recinti gli indigeni si dedicano, con il consenso dei capi, a riti di cannibalismo, divorando esseri umani acquistati presso altre tribù. La notizia di questi acquisti viene anzi data nei consueti messaggi ieratici mattutini, dove si può assistere giorno per giorno a una vera e propria cronaca delle acquisizioni gastronomiche; dalla qual cronaca emerge che particolarmente pregiati sono gli stranieri di colore, quelli di alcuni ceppi nordici e in gran quantità gli ispano-americani.


A quanto ci è stato dato di ricostruire, le vittime vengono divorate in enormi portate collettive composte da più individui, secondo complicate ricette che vengono pubblicamente esposte per le strade, nelle quali si presenta una sorta di posologia non ignara di reminiscenze alchemiche, del tipo di “3 a 2”, “4 a 0”, “2 a 1.” Che il cannibalismo non rappresenti tuttavia una semplice prescrizione religiosa ma un vizio diffuso, radicato in tutta la popolazione, è dimostrato dalle somme enormi che gli indigeni paiono spendere per l’acquisto dei cibi umani [69].


Pare tuttavia che presso i gruppi più abbienti questi banchetti domenicali suscitino un vero e proprio terrore, in modo che, nel momento in cui la maggior parte della popolazione si avvia ai refettori collettivi, i dissidenti si danno a una fuga disperata lungo tutte le vie di uscita dal villaggio, urtandosi disordinatamente, calpestandosi con i veicoli, perdendo la vita in sanguinosi tafferugli. Sembra che costoro, presi da una sorta di menadismo, intravedano come unica salvezza la via del mare, dato che la parola che ricorre con maggior insistenza in questi esodi sanguinosi è “la barca”.


Il basso livello intellettuale degli indigeni è dimostrato dal fatto che essi evidentemente ignorano che Milano non si trova sul mare; e così scarsa è la loro capacità di memorizzazione che ad ogni domenica mattina si danno alla consueta fuga precipitosa per rientrare nella città in mandrie spaurite la sera stessa, cercando rifugio nelle proprie capanne, pronti a dimenticare la loro cieca avventura il giorno dopo.


balloD’altra parte sin dai suoi primi anni il giovane nativo viene educato in modo che lo smarrimento e l’incertezza siano posti a fondamento di ogni suo gesto. Tipici a questo proposito sono i “riti di passaggio” che hanno luogo in locali sotterranei, dove i giovani vengono iniziati a una vita sessuale dominata da un tabù inibitivo. Caratteristica è la danza che essi praticano, in cui un giovane e una giovane si pongono l’uno di fronte all’altra dimenando le anche e muovendo avanti e indietro le braccia piegate ad angolo retto, sempre in modo che i corpi non si tocchino.


Già da queste danze traspare il più totale disinteresse da parte di ambo i partecipanti, completamente ignari l’uno dell’altro, tanto che quando uno dei danzatori si piega assumendo la posizione consueta dell’atto sessuale – mimandone le fasi ritmiche – l’altro si ritrae come inorridito e cerca di sfuggire curvandosi talvolta sino a terra; ma nel momento in cui l’altro, ormai pervenuto a raggiungerlo, potrebbe usare di lui, se ne allontana di colpo ristabilendo le distanze.


L’apparente asessualità della danza (un vero è proprio rito iniziatico improntato a ideali di astinenza totale) è tuttavia complicato da alcuni [70] particolari osceni. Infatti il danzatore maschio, anziché ostentare normalmente il membro nudo e farlo roteare tra gli applausi della folla (come farebbe qualsiasi nostro fanciullo partecipando a una festa sull’isola di Manus o altrove), lo tiene accuratamente coperto (lascio immaginare al lettore con quale impressione complessiva di ribrezzo per l’osservatore anche più spregiudicato). Del pari la danzatrice non lascia mai scorgere i seni, e sottraendoli alla vista dei presenti contribuisce ovviamente a creare desideri insoddisfatti che non possono non provocare frustrazioni profonde.


Il principio di frustrazione come costitutivo del rapporto pedagogico appare del resto funzionare anche nelle assemblee degli anziani, ugualmente compiute in sottordine, dove apparentemente si celebra un ritorno ai valori morali-naturali elementari: infatti una danzatrice appare lubricamente coperta di indumenti e gradatamente si spoglia mostrando le proprie membra, in modo che l’osservatore è portato a pensare che si stia qui preparando una risoluzione catartica dell’emozione, che dovrebbe sopravvenire quando la danzatrice si mostrasse pudicamente nuda. In realtà – per ordine espresso dei capi, come ci è stato dato di appurare – la danzatrice all’ultimo conserva alcuni indumenti fondamentali, oppure fìnge di toglierseli per scomparire, nell’istante in cui accenna a farlo, nel buio che improvvisamente invade la caverna. In tal modo gli indigeni escono da questi luoghi ancora in preda alle loro turbe.


Ma la domanda che il ricercatore si pone è la seguente: sono lo smarrimento e la frustrazione veramente effetto di una decisione pedagogica consapevole, oppure concorre a questo stato di cose, influenzando le stesse decisioni dei capi e dei sacerdoti, qualche causa più profonda connessa alla stessa natura dell’habitat milanese? Terribile domanda, perché in questo caso si porrebbe il dito sulle sorgenti profonde della mentalità magica che possiede i nativi, e si discenderebbe alle madri oscure da cui si origina la notte dell’anima di quest’orda primitiva [71].

venerdì 3 dicembre 2021

Foglie, Giorgio Caproni



Foglie


Quanti se ne sono andati…

Quanti.

Che cosa resta.

Nemmeno

il soffio.

Nemmeno

il graffio di rancore o il morso

della presenza.

Tutti

se ne sono andati senza

lasciare traccia.

Come

non lascia traccia il vento

sul marmo dove passa.

Come

non lascia orma l’ombra

sul marciapiede.

Tutti

scomparsi in un polverio

confusi d’occhi.

Un brusio

di voci afone, quasi

di foglie controfiato

dietro i vetri.

Foglie

che solo il cuore vede

e cui la mente non crede.



Giorgio Caproni

lunedì 7 dicembre 2020

Sviluppo e progresso. Pasolini degli Scritti corsari.




 « Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi : anzi sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che pero’ si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni “opposti” fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.

Vediamo: la parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? E’ evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui.

La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui sono da parte loro irrazionalmente ed inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abbiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”.

La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.

Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato.

Quando dico “lo vuole” lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche “produttore” che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): la dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo.

Qual è stata la parola d’ordine di Lenin appena vinta la rivoluzione? E’ stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica… Vinta la grande lotta di classe per il “progresso” adesso bisogna vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa per lo “sviluppo”. Vorrei aggiungere però – non senza esitazione – che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. E’ cio che, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.

Dunque la Destra vuole lo “sviluppo” (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il “progresso”. Ma nel caso la sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole – per poter realmente progredire socialmente e politicamente – lo “sviluppo”. Uno “sviluppo”, però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese. Tuttavia, qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione.

Qui la sinistra che vuole il “progresso”, nel caso che accetti lo “sviluppo”, deve accettare proprio questo “sviluppo”: lo sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese. E’ questa una contraddizione? E’ una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente si’. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di “progreso” con la realtà di questo “sviluppo”.

Per quel che riguarda la base delle Sinistre (diciamo pure la base elettorale, per parlare nell’ordine dei milioni di cittadini), la situazione è questa: un lavoratore vive nella coscienza l’ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive nella coscienza l’idea di “progresso”; mentre, contemporaneamente, egli vive, nell’esistenza, l’ideologia consumistica, e di conseguenza, a fortiori, i valori dello sviluppo. Il lavoratore è dunque dissociato. Ma non è il solo ad esserlo.

Anche il potere borghese classico è in questo momento completamente dissociato: per noi italiani tale potere borghese classico (cioè praticamente fascista) è la Democrazia cristiana. A questo punto voglio però abbandonare la terminologia che io (artista!) uso un po’ a braccio e scendere ad un’esemplificazione vivace.

La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista puo’ essere rappresentata da due simboli opposti, e, appunto inconciliabili: “Jesus” (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da una parte, e i “blue-jeans Jesus” dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di là gli “industriali” produttori di beni superflui e le grandi masse del consumo, laiche e, magari idiotamente, irreligiose.

Tra l’Jesus del Vaticano e l’Jesus dei blue-jeans, c’è stata una lotta. Nel Vaticano – all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti – si sono levati alti lamenti. Alti lamenti a cui per il solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non nominava limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente . La longa manus è rimasta inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua” e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso.

Ora il potere democristiano clerico-fascista si trova dilaniato tra questi due “Jesus”: la vecchia forma del potere e la nuova realtà del potere…« 


Pier Paolo Pasolini

venerdì 27 novembre 2020

Come Organizzare una Biblioteca Pubblica, un caro ricordo di Umberto Eco

 COME ORGANIZZARE UNA BIBLIOTECA PUBBLICA

1. I cataloghi devono essere divisi al massimo: deve essere posta molta cura nel dividere il catalogo dei libri da quello delle riviste, e questi da quello per soggetti, nonchè i libri di acquisizione recente dai libri di acquisizione più antica. Possibilmente l'ortografia, nei due cataloghi (acquisizioni recenti e antiche) deve essere diversa; per esempio nelle acquisizioni recenti retorica va con una t, in quella antica con due t; Čajkovskij nelle acquisizioni recenti col Č, mentre nelle acquisizioni antiche alla francese, col Tch.

2. I soggetti devono essere decisi dal bibliotecario. I libri non devono portare nel colophon un'indicazione circa i soggetti sotto cui debbono essere elencati.

3. Le sigle devono essere intrascrivibili, possibilmente molte, in modo che chiunque riempia la scheda non abbia mai posto per mettere l'ultima denominazione e la ritenga irrilevante, così che poi l'inserviente gli possa restituire la scheda perchè sia ricompilata.

4. Il tempo tra richiesta e consegna deve essere molto lungo.

5. Non bisogna dare più di un libro alla volta.

6. I libri consegnati dall'inserviente perchè richiesti su scheda non possono essere portati in sala consultazione, cioè bisogna dividere la propria vita in due aspetti fondamentali, uno per la lettura e l'altro per la consultazione. La biblioteca deve scoraggiare la lettura incrociata di più libri perchè provoca strabismo.

7. Deve esserci possibilmente assenza totale di macchine fotocopiatrici; comunque, se ne esiste una, l'accesso deve essere molto lungo e faticoso, la spesa superiore a quella della cartolibreria, i limiti di copiatura ridotti a non più di due o tre pagine.

8. Il bibliotecario deve considerare il lettore un nemico, un perdigiono (altrimenti sarebbe a lavorare), un ladro potenziale.

9. L'ufficio consulenza deve essere irragiungibile.

10. Il prestito dev'essere scoraggiato.

11. Il prestito interbiblioteca deve essere impossibile, in ogni caso deve prendere mesi. Meglio comunque garantire l'impossibilità di conoscere cosa ci sia nelle altre biblioteche.

12. In conseguenza di questo i furti devono essere facilissimi.

13. Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati: chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è lo studente lavoratore; il miglior amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, che quindi non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.

14. Non deve essere possibile rifocillarsi all'interno della biblioteca, in nessun modo, e in ogni caso non dev'essere possibile neanche rifocillarsi all'esterno della biblioteca senza prima aver depositato tutti i libri che si avevano in consegna, in modo da doverli poi richiedere dopo che si è preso il caffè.

15. Non deve essere possibile ritrovare il proprio libro il giorno dopo.

16. Non deve essere possibile sapere chi ha in prestito il libro che manca.

17. Possibilmente niente latrine.

18. Idealmente l'utente non dovrebbe poter entrare in biblioteca; ammesso che ci entri, usufruendo in modo puntiglioso e antipatico di un diritto che gli è stato concesso in base ai principi dell'Ottantanove, ma che però non è stato ancora assimilato dalla sensibilità collettiva, in ogni caso non deve, e non dovrà mai, tranne i rapidi attraversamenti della sala di consultazione, aver accesso ai penetrali degli scaffali.

NOTA RISERVATA. Tutto il personale deve essere affetto da menomazioni fisiche perchè è compito di un ente pubblico offrire possibilità di lavoro ai cittadini portatori di handicap (è allo studio l'estensione di tale requisito anche al Corpo dei Vigili del Fuoco). Il bibliotecario ideale deve anzitutto zoppicare affinchè sia ritardato il tempo che trascorre tra il prelevamento della scheda di richiesta, la discesa nei sotterranei e il ritorno. Per il personale destinato a raggiungere su scala a pioli gli scaddali più alti di otto metri si richiede che il braccio mancante sia sostituito con protesi a uncino, per ragioni di sicurezza. Il personale totalmente privo di arti superiori consegnerà l'opera tenendola tra i denti (la disposizione tende a impedire la consegna di volumi superiori al formato in ottavo).

1981

Umberto Eco, Il Secondo diario minimo

Bompiani